Abbiamo notato un notevole interesse da parte dei nostri lettori verso l’aspetto ecologico legato alla produzione di grandi quantità di olio di palma. Questa problematica è da diversi anni al centro dell’attenzione anche della comunità scientifica, che sta lavorando al fine di ridurre l’impatto ambientale di questo tipo di coltivazioni.
Intanto cerchiamo di capire brevemente cosa è l’olio di palma, da dove deriva e quali sono a grandi linee i suoi impieghi principali. Si tratta di un grasso di consistenza solida a temperatura ambiente estratto dalla polpa del frutto della palma da olio (Elaeis guineensis), coltivata esclusivamente nelle zone tropicali umide, in particolare Indonesia e Malesia, che da sole rappresentano l’87 per cento della produzione totale. L’olio di palma viene utilizzato soprattutto in ambito alimentare – e specialmente per le fritture, in quanto il suo punto di fumo è molto elevato (230°C) –, ma è sfruttato anche in altri settori (cosmetico, farmaceutico, per la produzione di saponi e lubrificanti e di biodiesel). Per una disamina approfondita delle caratteristiche di questo prodotto e delle analisi alle quali è stato sottoposto vi rimandiamo alla lettura di un interessante documento dell’Istituto Superiore della Sanità [1].
Per tornare all’argomento che ci ha spinti a scrivere queste poche righe, ovvero l’aspetto ecologico della questione, desideriamo proporre alla vostra attenzione alcuni articoli tratti dalla rivista «Nature». Non si tratta naturalmente di una scelta casuale: questa è infatti una pubblicazione che si rivolge a un’ampia fascia di lettori, perciò comprende anche articoli facilmente comprensibili pure ai non-addetti ai lavori. Anzi, la rivista dedica un’apposita sezione proprio ai contributi con taglio più divulgativo ed è da questi che abbiamo attinto per il presente scritto. Prendiamo dunque in considerazione un lavoro risalente a fine agosto 2007 [2] pubblicato da Lian Pin Koh e David S. Wilcove, all’epoca entrambi in forza all’Università di Princeton.
Gli autori riassumono la situazione dell’epoca: la domanda di olio di palma è in costante crescita, principalmente perché, come abbiamo detto in precedenza, trova impiego in molti settori, da quello alimentare a quello dei biocombustibili: tra il 1980 e il 2000 la produzione è aumentata di addirittura 4,6 volte. Questa rapida espansione delle piantagioni ha destato forti preoccupazioni circa la possibile perdita di biodiversità nelle regioni interessate, in particolare nel Sudest asiatico, dove le foreste vengono sostituite a ritmo vertiginoso da questo tipo di coltivazioni. Tale situazione ha generato un intenso dibattito tra organizzazioni non governative occidentali (ONG) e l’industria dell’olio di palma, scontro che ha avuto un rilevante impatto mediatico. Le ONG, da una parte, hanno espresso la loro preoccupazione per la perdita di ampie aree di foresta tropicale, perdita che rende soggette a rischio di estinzione diverse specie, come per esempio l’orangutan, e hanno quindi organizzato ingenti campagne di sensibilizzazione e di boicottaggio del prodotto. Dall’altra le aziende agricole si difendono sostenendo che la loro attività non provoca un impatto ambientale maggiore di altre, come per esempio le coltivazioni di soia in Sudamerica, e che per giunta le foreste che convertono in coltivazioni sono soltanto quelle già alterate dall’uomo e non quelle “incontaminate”. Ciò non dovrebbe andare quindi a detrimento della biodiversità.
Una coltivazione di palme da olio
Secondo gli autori di [2] la coltivazione della palma da olio è un settore altamente remunerativo e la lotta è a un punto di stallo: da un lato le ONG ignorano la realtà socio-economica dei paesi produttori di olio di palma (molte piantagioni, infatti, non sono semplicemente centri di lavoro ma ospitano villaggi e forniscono servizi abitativi, ricreativi, infrastrutture, scuole e anche assistenza medica); dall’altro le industrie locali non danno sufficiente importanza alle foreste per la conservazione dell’ecosistema e neanche alla biodiversità asiatica, che comprende parecchie specie uniche al mondo. Una soluzione prospettata nell’articolo sarebbe dunque la seguente: tramite una massiccia raccolta fondi che dovrebbe coinvolgere grandi enti di protezione a livello mondiale – e magari l’aiuto dei governi dei maggiori Paesi produttori di olio di palma – le ONG potrebbero acquisire alcune piantagioni, i cui profitti potrebbero essere utilizzati per l’acquisto e la conservazione di aree naturali di foresta con lo scopo di trasformarle in riserve naturali private.
Ruben Clements e Mary Rose C. Posa, dell’Università di Singapore, criticano questa proposta per due ragioni fondamentali [3]: a parte la cifra davvero ingente che dovrebbe essere raccolta per dare inizio a un simile progetto, esso richiede diversi anni per svilupparsi e, nel frattempo, la deforestazione non farebbe che aumentare; inoltre l’inserimento delle ONG nel campo economico delle piantagioni potrebbe esacerbare la situazione (incrementando l’estensione dei territori dedicati alle coltivazioni e contemporaneamente sottraendoli alle aziende private) oltre a distrarre fondi ed energie dai progetti di conservazione. La proposta dei due studiosi è la seguente: le ONG dovrebbero impegnarsi a convincere le diverse aziende a finanziare in prima persona la creazione e il mantenimento di aree protette in cambio di una specie di certificazione dell’ecosostenibilità del prodotto che contribuirebbe al suo maggior successo sul mercato.
A questa proposta ribattono brevemente Oscar Venter, dell’Università del Queensland, Erik Meijaard, del programma indonesiano per la conservazione delle aree di foresta e dell’orangutan, e Kerrie Wilson, del The Nature Conservancy australiano [4]: che si tratti di acquistare piantagioni o aree da trasformare in riserve naturali, le ONG si metterebbero in competizione con un settore che produce miliardi, cifre decisamente superiori al loro budget. Propongono quindi un approccio su più fronti: campagne di sensibilizzazione per ridurre la domanda di olio di palma ma, al tempo stesso, collaborazione con le comunità locali, proponendo loro attività alternative che siano ecosostenibili, e con le aziende stesse tramite certificazioni di qualità.
Jake L. Snaddon, Katherine J. Willis e David W. Macdonald dell’Università di Oxford spostano invece l’attenzione su un’altra fase, anch’essa potenzialmente distruttiva per la biodiversità [5]: la vita produttiva di una palma da olio si aggira sui 25-30 anni e pertanto, avendo avuto il boom dell’olio in questione inizio negli anni Ottanta, ora una porzione consistente delle palme coltivate nel Sudest asiatico deve essere sostituita. Poiché una “vita” così lunga ha permesso alla natura di costruire ambienti biologicamente complessi attorno alle palme, la loro sostituzione indiscriminata significherebbe la distruzione di tali legami e il disturbo dei terreni e delle reti idrogeologiche createsi nel corso del tempo. Gli studiosi, avendo sottolineato tali pericoli, auspicano dunque che tali operazioni – indispensabili dal punto di vista produttivo e quindi commerciale – vengano progettate e portate avanti con un occhio attento alla natura.
Passando a un altro aspetto della coltivazione, un interessante articolo di Meilina Ong-Abdullah e colleghi mette in luce alcune difficoltà dovute ai sistemi di propagazione delle palme da olio [6]. Diverse varietà di piante ad alta produzione vengono infatti moltiplicate sfruttando tecniche di coltivazione dei tessuti, che danno vita a organismi geneticamente identici. Purtroppo alcuni di questi esemplari sono soggetti a mutazioni genetiche che li portano a dare frutti notevolmente meno ricchi di olio. Come abbiamo detto, la vita di una palma da olio è piuttosto lunga e la scoperta di tali difetti avviene soltanto nel momento in cui la pianta comincia a fruttificare, quindi dopo anni di cure intensive. E ciò si traduce in un notevole danno economico, vista la grande richiesta di prodotto. Ong-Abdullah e colleghi hanno studiato approfonditamente il meccanismo che porta a tali mutazioni epigenetiche, aprendo la via alla possibilità di individuare da subito le piante economicamente non vantaggiose. Ciò comporta benefici non solo per i profitti delle aziende produttrici ma anche per l’ambiente: poiché, come abbiamo visto in precedenza, le aree di coltivazione sottraggono spazi considerevoli alle foreste tropicali, aumentare la produttività delle piante significa diminuire la “fame” di terreni delle compagnie che producono l’olio di palma. Un ulteriore approfondimento di tale questione è affrontato nell’articolo di Wudan Yan, giornalista di Seattle [7], che cita, appunto, lo studio di Ong-Abdullah e colleghi e tratta delle questioni genetiche inerenti al miglioramento delle piante da coltivazione. Il lavoro si conclude citando le parole di Raviga Sambanthamurthi, biochimico e già direttore del MPOB’s Advanced Biotechnology and Breeding Centre (Malesia): “Non vedo altre coltivazioni in grado di soddisfare le necessità mondiali. Non abbiamo a disposizione ulteriori terreni da coltivare, perciò non abbiamo che una scelta: rendere le palme da olio ancora più produttive”.
Possiamo dunque terminare il nostro breve intervento con le considerazioni di Alessandro De Pinto, Keith Wiebe (entrambi all’International Food Policy Research Institute di Washington DC) e Paolo Pacheco (del Center for International Forestry Research di Bogor, Indonesia) [8]: la tecnologia può aiutarci a incrementare la produttività delle palme da olio riducendo dunque la deforestazione. Ciò può apportare benefici sia al mercato sia all’ambiente, ma soltanto se accompagnato da una sensibile diminuzione dei prezzi del prodotto che rende la coltivazione meno lucrativa. Si tratta però di un processo delicato con possibili effetti collaterali: per esempio, le aziende più grandi avranno meno difficoltà ad applicare le nuove tecnologie su larga scala, ottenendo così ulteriori vantaggi economici che potenzialmente porterebbero all’acquisizione di più terreno. Proprio per questo motivo sono innovazioni e cambiamenti che devono essere accompagnati da un’attenta sorveglianza e da regolamenti che stabiliscano (e facciano poi rispettare) la conversione dei terreni.
Ecco dunque che la scienza e la tecnologia ci danno la possibilità di perseguire un obiettivo che potrà farci ottenere un prodotto dagli utilizzi più vari a un costo (economico e ambientale) più basso e conveniente; tale possibilità va poi “amministrata” attentamente, in modo da rispettare la responsabilità (e il dovere) di salvaguardare non solo le foreste tropicali e le specie che vi abitano, ma anche coloro che lavorano nel settore e ne traggono sostentamento per sé e le loro famiglie. L’impatto ambientale della produzione di olio di palma è un problema dibattuto all’interno della comunità scientifica da più di dieci anni, e questo ha prodotto delle tecnologie che consentono di migliorarne la sostenibilità. Demonizzare l’olio di palma e il lavoro scientifico ad esso collegato – specialmente quando si tratta di ingegneria genetica – come se fossero il simbolo stesso del male è a nostro parere non solo sbagliato ma anche controproducente, soprattutto dal momento che, anche grazie alla ricerca scientifica, è oggi possibile trovare un giusto equilibrio tra consumi e salvaguardia dell’ambiente.
[1] http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2481_allegato.pdf
[2] https://www.nature.com/articles/448993a - Nature 448, 993-994 (30 August 2007)
[3] https://www.nature.com/articles/449403d - Nature 449, 403 (27 September 2007)
[4] https://www.nature.com/articles/451016a - Nature 451, 16 (03 January 2008)
[5] https://www.nature.com/articles/502170d - Nature 502, 170-171 (10 October 2013)
[6] https://www.nature.com/articles/nature15216 - Nature 525, 466-467 (24 September 2015)
[7] https://www.nature.com/news/a-makeover-for-the-world-s-most-hated-crop-1.21634 - Nature 543, 306-308 (16 March 2017)
[8] https://www.nature.com/articles/544416d - Nature 544, 416 (27 April 2017)